MONTE TERMINIO

Acquameroli - Passo di Annibale - Acqua delle Logge - Cretazza - Cerretello - Varco dell'Immenso - Scala del Terminio - Cima Nord (q. 1783 o 1792 m) - Cima (1806 m)
(29 maggio 2022)



IL PARCO REGIONALE DEI MONTI PICENTINI *
Il Parco Naturale Regionale dei Monti Picentini è una delle aree più "verdi" della Campania. Istituito dalla legge n. 394 del 6/12/1991 (art. 9 comma 1) e dalla legge reg. 33, 1/9/1993 e successive delibere, la ratifica definitiva avvenne solo con decreto reg. n. 378 dell’11/6/2003. I suoi 63.000 ettari racchiudono un patrimonio naturalistico (e paesaggistico) di rilievo. I Monti Picentini sono il bacino imbrifero più importante del Sud Italia, il terzo in Europa: malgrado il pesante utilizzo delle sue acque per dissetare mezza regione e parte della Puglia, la fitta copertura boschiva resta il loro punto forte. Fanno da habitat a un ragguardevole patrimonio floristico e faunistico e sono altresì caratterizzati da molteplici ed estesi fenomeni carsici. Da non sottovalutare neanche il fascino di molti borghi tra i 30 comuni del Parco, situati nella fascia meridionale della provincia di Avellino e in quella settentrionale di Salerno, impreziositi ancora da innumerevoli gemme architettoniche e artistiche, malgrado i danni del terremoto del 1980.
La cima più alta del gruppo è il Monte Cervialto (1809 m, sottosettore E e NE), seguita dal Monte Terminio (1806 m, a NW), il Polveracchio (1790 m, SE); tra le altre l’Acellica (1660 m, nel cuore del massiccio) e i Mai (1607 m, nel settore SW). Terminio e Acellica hanno versanti alpestri, ma anche Mai e Polveracchio sono montagne isolate e panoramiche.
I Monti Picentini annoverano una trentina di cime sopra i 1500 m (alcune sono elevazioni secondarie o anticime; cfr. elenco di V. Bozza ne: Il Varco del Paradiso, CAI Salerno, 2010/1, p. 5).
* [F.R. - Testo rielaborato dalla mia intorduzione "Campania e Matese molisano" in: C. Palumbo, V. Paticchia, F. Raffaele, M. Renna,
Sentiero Italia CAI. Vol IV. Senerchia - Isernia, ed. Idea Montagna 2022, pp. 18-45, testo a p. 43]

I MONTI PICENTINI E IL TERMINIO **
I Monti Picentini, il più importante bacino idrografico della Campania, si estendono per più di 1000 kmq (ca. 40 x 25 km) a cavallo delle province di Avellino e Salerno, tra le valli dei fiumi Irno e Solofrana a ovest, l’alto Sele a est, il Fiume Ofanto, la Sella di Conza e l’Alta Irpinia a nord, la Piana di Salerno-Pontecagnano e il medio Sele a sud. Il Calore, il Sabato, il Sele, il Tusciano e altri fiumi che nascono da questo massiccio rivestono da millenni un ruolo di rilievo quali principali vie di comunicazione e sono oggigiorno fondamentali per l’approvvigionamento idrico di parte della Campania e della Puglia.
L’oronimo, così come la capitale Picentia/Picenza, il Fiume Picentino e l’Agro Picentino dei Romani, deriva dall’etnia dei Piceni (si veda l’introduzione storica) ed è in senso etnico che va letto “Picentini” su alcune carte antiche, come quelle del Danti nella Galleria dei Musei Vaticani (fine XVI sec.), quindi localizzati tra (i popoli) “Irpini” e “Lucani”; stessa accezione paiono avere le citazioni umanistiche del Sannazzaro.
Già nei documenti medievali la sola parte sud-occidentale del gruppo (Pizzo San Michele-Maj) è detta Serre di Montoro, mentre negli scritti geografici, corografici e “geologici” cinquecenteschi (L. Alberti, S. Breislak) le montagne associate al Fiume Sabato sono designate come Monti Tremoli.
Il naturalista Oronzio G. Costa è il primo studioso a usare correntemente il toponimo “Monti Picentini” (almeno dal 1864; il geografo P. De Cuppis li chiama così già nel 1859), ma G. Fortunato (1878, 1880, 1884) li indica ancora come “Gruppo del Terminio”, e per il grande geografo Giovanni Marinelli (1897) sono “il gruppo del Terminio od altopiano Irpino o monti Picentini”.
Nella cartografia storica del Seicento (Magini, Blaeu) compare “Monte Termino”, ma già prima, nelle accurate mappe aragonesi (seconda metà del quattrocento), a sud-est di Serino è riportato il villaggio di S. M(aria) del Termine (-o?), che fa ovviamente riferimento all’oronimo. A partire dal ’200 e nei secoli successivi vi è menzione nell’Archivio Segreto vaticano, nell’Archivio di Cava (1302) e in altri documenti del Monastero benedettino (o del relativo abate) del Santissimo Salvatore di Serino de Turmino, o ad Terminuim o di Treminio (sic! Cfr. F. Masucci, 1959; F. Moscati, 2005), i cui ruderi, “le mura di San Benedetto”, sono ancora visibili lungo la SS574 ai piedi del Terminio in località Cerreto.
“M. Termolo” è riportato sulle carte settecentesche (Rizzi-Zannoni 1769, Cassini 1790) per il gruppo intero, mentre sull’Atlante di G.A. Rizzi-Zannoni (1806) è ben evidenziato e delineato il “Monte Terminio”.
Per A. Di Meo (1819) “Terminio o Tremino” vale “trimons, trivertex” (a tre vette), mentre gli storici locali (da F. Scandone, 1911 a R.R. Di Meo, 1987) ne fanno derivare il nome dal termine osco-sannita “Teremenniù” (“confini, termini”), sulla scorta della grammatica osco-umbra del Darling Buch (1904) e in relazione al fatto che la montagna faceva da “fines Samni”, “confine del Sannio, come le Serre di Montoro più tardi tra i principati Ultra e Citra.
Il Monte Terminio era localmente noto come il “Montagnone” (di Serino): così lo chiama G. Fortunato che, come detto, usava la locuzione “Monti del Terminio” per indicare l’intero gruppo montuoso dei Picentini.
A ovest il Terminio si apre ad anfiteatro (2 km di diametro) racchiuso tra la Colla di Basso e La Scala a nord, le vette principali a (nord-)est e il Monte Vernacolo a sud; nel mezzo di questo maestoso emiciclo di speroni, pinnacoli, creste, paretine e canaloni, ove sulle rocce alligna il leccio, ha origine il Vallone Matrunolo, che scorre verso ovest e sfocia nel Fiume Sabato poco oltre il panoramico cavalcavia della SS574.
Sugli altri tre versanti della montagna invece, in particolare a est, predominano le faggete, appartenenti ai territori di Serino, Volturara Irpina e Montella, da dove partono le varie vie di avvicinamento. Sono questi i due “volti” del Terminio, che a quote più basse è avviluppato da cortine di bei castagneti.
La presenza tanto di ambienti umidi (alta Valle del Sabato, Vallone Matrunolo, Bosco dell’Ogliara) quanto di zone di alta quota, con svariate tipologie di risorse, ha reso l’area frequentata, sfruttata e contesa dall’uomo: resti del Paleolitico superiore sono stati trovati nella Valle della Tornola, industria litica del Bronzo (facies Palma Campania) nella Grotta del Santissimo Salvatore e nel sito della Civita di Ogliara, poi importante presidio longobardo come il Castello di Orano; si aggiungano le annose liti giudiziarie per la “Difesa” di Ogliara tra Serino e Montella e le vertenze per i boschi demaniali contesi tra Volturara e Montella, il tutto a testimonianza dell’interesse millenario per le “ricchezze” di questa montagna.
Coeva o forse ancora più antica della fondazione del Monastero benedettino sopra menzionato, la Grotta-Santuario del Santissimo Salvatore (1120 m ca.) è nascosta in un pittoresco e vertiginoso anfratto dell’orrido versante occidentale della montagna; probabilmente nacque come luogo di culto longobardo e successivamente, nel Basso Medioevo, la venerazione per l’Arcangelo Michele fu soppiantata da quella per il Santissimo Salvatore. La grotta è protetta da un piccolo edificio con cancello (aperto) che si affaccia sul Burrone del Salvatore, dominato da un alto sperone staccato (Ripa del Diavolo) su cui si diceva vi fosse traccia del sangue lasciato da Satana quando fu scacciato dalla grotta, di cui era stato il primo abitatore.
Nell’interno vi sono epigrafi/lapidi antiche (XVI-XVII sec. riferimenti a un eremita lì sepolto) e un altare (San Michele e Santissimo Salvatore) con dietro una scala che conduce a un pozzetto e alla raffigurazione di un volto maschile inciso sulla concrezione parietale. La processione e festa si tiene il 6 agosto.
Anche i “balordi” (dal nome di uno dei valloni più remoti) si rifugiavano tra le rupi e i canaloni del Terminio al tempo del brigantaggio preunitario (il “Laurenziello” di Santo Stefano del Sole) e postunitario (“Cicco” Cianci).
L’ampia area cacuminale, facilmente accessibile dai pianori sottostanti, offriva un tempo alcune moggia di pascolo in quota per i pastori che conducevano gli animali al Piano del Montagnone. Oggi il pascolo si limita a poche mandrie di bovini – la rinomata specie podolica – stanziate sui vasti pianori sottostanti (Campolo-Spierto, Verteglia, Ischia) che alcuni proprietari conducono ancora a svernare verso la Puglia, come si usava fare un tempo: è una cornice scenografica emozionante, seppure ormai lontana (nei secoli come nella portata del fenomeno) dalle grandi transumanze che muovevano ogni anno centinaia di migliaia di capi.
Veduta all’imbrunire la terra della piana di Verteglia non ha più peso e consistenza terrestre. È un’aerea distesa cullata dai campani degli armenti silenziosi e dai nitriti dei puledri che la fanno trasalire dal sogno all’improvviso. Nascosto nella quiete boschiva di faggi e querce il Rifugio riposa ai lembi della prateria circondato da carbonaie che fumano malinconiche e lente come vulcani moribondi crivellati senza pietà per mano d’uno spirito maligno odiatore del fuoco” (E. Buccafusca, Guida sentimentale dei Monti del Sud, 1946).
La facile accessibilità dei pianori e della cima ha fatto sì che nel corso del XX secolo si moltiplicassero le ascensioni di naturalisti ed escursionisti, attratti dalla varietà di specie osservabili sul “Montagnone” e dall’inusuale, tormentata e dolomitica conformazione orografica del settore aperto a ponente.
Fermo restando la tradizionale frequentazione da parte di pastori, cacciatori, boscaioli, carbonai, nevaioli e briganti, la prima relazione di un’ascensione in cima è dell’insigne botanico M. Tenore che vi salì (da Serino) il 24-25 luglio 1842, notando sulla cima nord un palo che i topografi napoletani avevano eretto nel 1840 ai fini delle triangolazioni necessarie per la compilazione della “Carta delle Province Meridionali” (1862-1876, in scala 1:50.000).
Infatti la cartografia napoletana (e la prima cartografia dell’IGM di Firenze) designa come “Monte Terminio” la cima trigonometrica (quella nord, q. 1783 m) mentre della più alta cima centrale era riportata solo la quota, allora stimata 1820 m (che ne faceva la cima più alta del gruppo), poi rettificata in 1806 m.
Il 30 luglio 1878 salì sul Terminio G. Fortunato, poi fu la volta del romano E. Abbate (1° agosto 1887) e del barlettano (ma napoletano di adozione) V. Campanile (1889), cui si deve pure la prima salita invernale (27 dicembre 1895).
La SAM di V. Campanile indisse nel 1895 una sottoscrizione per la costruzione di due rifugi, uno sulla cima del Monte Miletto (Matese) e uno sul Terminio, ma solo il primo fu effettivamente realizzato.
Una foto estiva scattata da E. Abbate (apparsa nella tavola VII dell’Annuario del CAI di Roma del 1888 e nel suo libretto Qua e là, 1888) è forse la più antica che ritrae la cima principale del Terminio, che curiosamente si divideva la tavola illustrativa con una fotografia, dello stesso autore, ripresa in cima al Monte Bianco. Giusto 3000 m (di quota) di differenza, che però significano poco per chi ama le montagne.
[Francesco Raffaele]
** [Tratto integralmente da F.R. "I Monti Picentini e il Terminio", pubblicato nella Guida "Sentiero Italia CAI vol. 4, Senerchia - Isernia", ed. Idea Montagna 2022, pp. 112-115]



Costa Friddo


Vallone del Balordo, Costra Friddo, Colla di Basso e Varco dell'Immenso o del Freddo, dalla Scala del Terminio










 

Cima Nord del Terminio (1793m). Massimo M. fissa sul lato N della croce la targa in memoria dell'amico Nicola Raimo (Volturara I., Avellino, 1960 - Quagliuzzo, Ivrea, 2022)



















 
















La Cresta del Carpino. In basso il Canalone Grande, sullo sfondo il Vallone Matrunolo





Cima principale del Terminio (1806m)



  
  
 

 


Foto e testi di Francesco Raffaele

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