CARLO BOSCIA, mio nonno
[7/1/1916 † 2/3/2014]



Tra il 1938 e il 1939 mio nonno materno, Carlo Boscia, allora ventidueenne, fu in Libia.
Per un disguido nell'indirizzo del suo domicilio, si era presentato ad un posto di polizia con la sua "Cartolina Rosa" che era ormai già vecchia di mesi: rischiò di essere accusato di renitenza alla leva, quindi fu trattenuto sul posto e, pochi giorni dopo, fatto imbarcare da Napoli, "Destinazione Colonie"...
- Partì nella primavera del 1938, direttamente da Napoli e senza neanche poter tornare a casa per salutare i familiari.
Con le peripezìe che visse in Africa, tra gli episodi comici e soprattutto quelli avventurosi e tragici, che mi ha raccontato decine di volte, si potrebbe scrivere un libro!
Semmai un giorno ne scriverò qualcuno più nei dettagli, in questa pagina.
Qualche anno fa, una studentessa universitaria lo ha "intervistato" per la sua Tesi di Laurea in sociologia ("Granelli di sabbia").
In questa pagina ci sono le fotografie che lui scattò in Africa (Cirenaica e Tripolitania) in quegli anni (1938-39) in Libia
(per alcuni giorni con il suo battaglione sconfinò anche in Egitto durante una marcia in pieno ghibli, dall'Oasi di Kufra).
In Libia rischiò più volte la vita, sia in battaglie che in altre occasioni.
Rischiò anche la prigione (e forse anche di più) quando un ufficiale invidioso dichiarò che aveva disobbedito ai suoi ordini durante una battaglia (si rifiutava di trasportare alcuni involti di fotoelettrica perché già appesantito da altro carico, mentre sul posto c'erano altri commilitoni senza fardello; in realtà, poi, il fatto era accaduto ben prima dell'attacco): grazie alle testimonianze dei commilitoni ed alla simpatia che per lui nutriva un importante colonnello, si appurarono i fatti e fu l'ufficiale ad essere allontanato.
Ma la "prigionia" arrivò in un'altra circostanza: fu catturato mentre, con due compagni, cercava di liberare la jeep arenata nella sabbia del deserto marmarico.
In quell'occasione i suoi amici (il milanese De Rudatis ed un veneziano?) furono fucilati, mentre lui riuscì a cavarsela finendo per essere integrato nella tribù.
Tempo dopo gli fu addirittura data in "sposa" Mabruka, la figlia del capotribù, ormai suo fedele amico, Zomba.
Un giorno, mentre gli adulti erano andati a depredare una carovana, lui riuscì a fuggire con un cammello; ma rischiò di essere colpito proprio quando, giorni dopo, giunse ad un forte alle porte di Bengasi, poiché era vestito come un tuareg / beduino e in quel periodo un altro forte era stato assalito e depredato e tutti i gli occupanti di quel forte erano stati massacrati... Perciò a mio nonno, dalle mura del fortino ove giunse fuggendo dai berberi a cavallo d'un cammello, il primo colpo in aria "di avviso", glielo indirizzarono addosso, per fortuna mancandolo. Ha vissuto per altri settantasei anni, morendo il 2/3/2014 all'età di 98 anni e 2 mesi.
   

TOBRUK, LO SCIACALLO E GLI SCORPIONI DEL DESERTO - La cagnetta, alla quale avevano dato il nome della cittadina presso la quale fu trovata, Tobruk, era divenuta la mascotte della caserma italiana a Bengasi e tutti i soldati le si erano affezionati. Era ancora lì ad attendere quelli che sarebbero tornati dalle missioni nel deserto tra il 1938 e il '39, e che avrebbero voluto portarsela a Napoli; ma non fu in alcun modo possibile imbarcarla per ragioni di profilassi. Tra i mammiferi che vivevano nel deserto marmarico, oltre a roditori e alle piccole volpi (fennec) c'erano anche gli sciacalli. In uno dei primi campi un soldato riuscì in qualche modo a catturarne un esemplare. Lo sciacallo fu legato ad un paletto con una corda annodata ad una zampa. Fu grande la sorpresa quando si constatò, la mattina successiva, che legata alla corda c'era rimasta solo la zampa dell'animale!
Ho chiesto spesso notizie di serpenti, ma mio nonno non ricorda avvistamenti o episodi legati a vipere (Ceraste cornuta), vipere soffianti, cobra etc. Mi ha invece spesso raccontato delle temutissime punture di scorpione che una volta costarono la vita ad un soldato (e, se ben ricordo, anche l'amputazione di un arto ad un altro uomo). Le tende erano sprovviste della scacca inferiore, quindi sotto vi entravano facilmente gli scorpioni alla ricerca di calore nelle fredde notti sahariane: perciò non era raro ritrovarseli tra le coperte o negli scarponi (come si vede in molti film ambientati in quelle zone).

"ERO SCALTRO" - Mio nonno era un uomo preciso e ingegnoso sotto l'aspetto lavorativo-professionale: perito elettrotecnico lavorò come capotreno e mi raccontava spesso dell'officina di Pietrarsa, onore delle tecnologie della Napoli tardo borbonica e poi post-unitaria. Uno degli episodi che più amava raccontare, circa la sua perizia e "scaltrezza" era quello che, durante la Campagna d'Africa, gli valse un piccolo premio in danaro -oltre al riconoscimento e alla stima degli ufficiali- essendo riuscito a calibrare la direzione del cannoncino della contraerea con quella verso cui puntava il faretto per l'illuminazione notturna dei bersagli: costruì un piccolo circuito con interruttore che allineava le direzioni di faro e linea di fuoco, il che consentiva al suo mortaio, durante gli attacchi aerei notturni, di cominciare a sparare con una buona manciata di secondi d'anticipo rispetto agli altri pezzi che andavano prima tarati per indirizzare il tiro e la luce sulla stessa traiettoria. Il vantaggio del suo congegno fu presto acclarato e ne fu applicato uno a tutti i pezzi.

"AVRA' PRESTO MIE NOTIZIE" - La politica non era certo tra i suoi pensieri principali: anche se soleva ripetere, da addetto ai lavori, il solito luogo comune dei "treni che arrivavano sempre in orario", di sicuro non apprezzava l'eccesso di rigore e la privazione di molte libertà che il regime fascista attuò: prima del matrimonio, da gran donnaiolo che era, rischiò più volte di mettersi nei guai stuzzicando (e non solo...) o essendo stuzzicato da donne fidanzate o sposate, cosa che a quei tempi era molto più rischiosa di oggi, soprattutto se si pestavano certi piedi...

Che non fosse estremamente "simpatizzante" lo prova il fatto che, tra le decine di ripetizioni dei fatti di guerra, che mi racconta da quando io avevo 9-10 anni fino a "ieri", solo una volta, nel 2013, mi raccontò di essere stato personalmente encomiato dal duce in persona: un giorno, su un treno che mio nonno dirigeva sulla tratta Napoli - Reggio C. (forse l'inaugurazione della tratta?), viaggiava a insaputa del mio avo, tra le varie personalità, nientedimeno che lo stesso B. Mussolini. Nonostante seri ostacoli (erano giornate di manifestazioni e scioperi su alcuni tratti dei binari o forse c'erano boicottaggi dei partigiani) quella volta mio nonno riuscì effettivamente a raggiungere "il capolinea" in orario, e all'arrivo il duce gli volle personalmente fare le sue congratuazioni e gli disse "avrà presto mie notizie". Gli fu inviata una medaglia d'oro che conserva incorniciata e che io non avevo mai saputo fosse legata a questo avvenimento. Me l'ha raccontato una sola volta, appena un paio di anni fa, quando aveva 97 anni.

   


"LA GRANDE MAGIA" - Con i colleghi, in gruppo, era spesso lui il catalizzatore, soprattutto per il suo carattere simpatico e burlone: amava fare piccoli giochi di prestigio ma soprattutto schernirsi bonariamente dei nuovi arrivati (a scuola, poi sul lavoro così come sotto le armi) ad esempio accordandosi con gli amici della 'vittima' facendogli così credere d'essere in grado di leggere il pensiero; uno dei suoi giochi preferiti, sotto le armi, gli costò una punizione esemplare: dopo aver stupito il malcapitato di turno con la tarocca lettura del pensiero, gli fece credere d'essere in grado di ipnotizzarlo! In questi casi andava a finire che lui esclamasse e poi incitasse il soggetto, con tono crescente e sempre più evocativo - coinvolgendo così sempre più persone che semmai, fino a quel momento, erano in altro affaccendate- chiedendogli d'immaginare d'essere caduto in mare, alchè, ad un segnale prestabilito, un socio tirava un filo che rovesciava un secchio d'acqua in testa al "pollo" della serata. Ma in quest'ultimo caso, "l'uomo in mare" si diede malato per giorni, e questo portò ad una sanzione comminata a metà battaglione; da allora l'organizzazione degli scherzetti interni venne un po' ridimensionata.

PRIMA DI TOTO' - Anche in Africa non mancavano occasioni per scherzi o vicende comiche: non ricordo come andasse a finire quando, invitato ad una tavolata in una bettola di Tripoli, pensando fosse "tutto pagato", si riempì la pancia per ore, restando infine seduto, solo con un compagno, mentre gli altri soldati pian piano si erano dileguati con l'intento di lasciare agli ultimi l'onere del salatissimo conto... Di certo anche lui finì per squagliarsela, perché alla fine del racconto di questo episodio ripeteva sempre che quei tavernieri tripolitani "m'stanno ancora aspettann".
E' invece facile immaginarsi l'esito di un classico scherzo, quello che amava ripetere fuori alle moschee 'spaiando' i sandali che i fedeli riponevano ordinatamente prima della funzione: una volta usciti dal loro luogo di preghiera, si vedevano i gruppetti di islamici che cominciavano a protestare, talvolta a litigare tra di loro, invocando a gran voce Allah e -sicuramente- imprecando contro chi aveva mischiato le loro calzature...

Robe da film, situazioni-tipo a cui scrittori, commediografi e registi -e lo stesso grande Totò, che per certi versi me lo ricordava- hanno attinto a piene mani nel dopoguerra.

"BOSCIA, OGGI TI TROVO PIUTTOSTO ALLEGRO!!" - Più che burla era quasi una "necessità" quella che lo spingeva, da fidato, incaricato alla sorvaglianza delle scorte di Anisetta (un tipo di sambuca, liquore all'Anice), ad 'allungarle' progressivamente con acqua: essendo infatti poste delle tacche sul livello del liquore nelle bottiglie, era impensabile bersela senza rimpiazzarne il contenuto. Da buon sannita di Benevento mio nonno apprezzava il vino e lo Strega: io stesso sono stato testimone in varie occasioni in cui - dopo qualche bicchierino- allettava con episodi reali o poesie piccanti i commensali delle nostre grandi tavolate estive, durante le vacanze al Camping di Pescasseroli o quelle in Calabria. Però, tornando all'Africa, la sorveglianza delle scorte di Anisetta era davvero una grande tentazione, considerando sia i tempi morti di certe giornate, che il freddo della notte nel deserto e soprattutto il tanfo di benzina dell'acqua che bevevano, acqua spesso trasportata nelle taniche usate anche per i carburanti! Era inevitabile quindi che i compagni lo trovassero sovente oltremodo "allegro".


Arco di Fidene


L'EROICA SCALATA DEL MILANESE -
Il Milanese era uno dei tipi più burloni della compagnia, ma era anche un ragazzo in gamba quando si trattava di mettersi d'impegno.
Durante uno spostamento in una zona montuosa del deserto marmarico, la colonna, pericolosamente esposta in un'angusta gola, fu attaccata da un manipolo di beduini. Non dovevano essere in molti a giudicare dal volume del fuoco, ma la natura del luogo impediva qualsiasi spostamento alla pattuglia e ai veicoli, e gli assalitori sparavano da postazioni molto alte, cosicché dal fondo della gola non era possibile rispondere al fuoco. Si rischiava di restare sotto scacco per giorni, o peggio, si temeva che i nemici avrebbero potuto ricever rinforzi e organizzarsi per attacchi ancora più seri e forse tragicamente definitivi.
Da abile scalatore qual'era, il milanese non ci pensò sopra più di tanto e, avvisati i superiori, si fiondò verso l'altro versante della montagna con l'intento di aggirare gli avversari e possibilmente prenderli di sopresa da un punto più in alto, semmai facendo precipitare su di essi una scarica di massi.
Con una manovra degna dei vecchi western o delle egualmente affascinanti avventure a fumetti di Tex Willer, il milanese si avviò rapidamente, il suo diversivo prontamente schermato da un fuoco di copertura, finchè non lo si vide più per una buona mezz'ora o anche di più.
D'un tratto qualcuno notò che era apparso sul crinale sommitale del versante della montagna da cui partiva il fuoco nemico, ma in una posizione ancora più alta di quella degli avversari. Partirono le sue scariche di proiettili: probabilmente gli autori dell'imboscata erano pochi e furono presi alla sprovvista perché dopo un tempo relativamente breve il fuoco di risposta cessò e non si udì che l'eco degli spari e poi più nulla per una manciata di secondi. Forse in quel frangente, dal basso, in molti avranno sperato di rivedere il compagno, mentre i più pessimisti avranno pensato che fosse stato colpito.
D'un tratto sulla cima di rimpetto ecco spuntare il coraggioso milanese, che con tono beffardo e scanzonato prende a schernire la colonna asserragliata nell'orrido sottostante urlando a gran voce: "Lavativi del XXI° reggimento, via liberaaaa!!". Ancora riecheggiava nel vallone quella frase liberatoria, con le acclamazioni di gioia dei soldati che iniziavano ad irrompere, quando uno sparo, uno solo, si udì provenire da metà costone. Il colpo aveva centrato in pieno il milanese perché lo videro subito dopo librarsi, precipitando con un volo da brividi per centinaia e centinaia di metri. Da allora tutto tacque. Con la dovuta cautela la colonna cominciò timidamente a muoversi senza incontrare altra resistenza. E' plausibile che qualcuno degli assalitori fosse restato in vita giusto il tempo per tirare quel fatidico, fatale ultimo colpo allo sfortunato milanese, colpevole solo d'esser stato troppo avventato nel palesarsi così apertamente sul ciglio di quel maledetto crinale.
Molti dei presenti si sarebbero battuti per fargli ricevere una medaglia al valore, dal momento che quel gesto salvò la vita a tutta la colonna. Io stesso non sarei mai nato senza quell'atto eroico che consentì a mio nonno di sopravvivere anche in quell'occasione. Purtroppo però di quel gesto resta solo il blando ricordo dei racconti di mio nonno, e certamente di altri nonni ai loro nipoti; non ricordo il nome del milanese, e nessuna medaglia gli fu mai intitolata in ragione del fatto che non fu possibile recuperarne il cadavere -né quindi la piastrina- essendo l'uomo precipitato in un crepaccio del tutto inaccessibile.


"UOMINI CHE VIVEVANO NELLE TANE!" -
La pattuglia procedeva tra le aspre pietraie battute dall'implacabile sole del deserto, in direzione sud verso l'Oasi di Kufra. D'imporvviso un gruppetto di soldati si allontanò avendo avvistato uno sciacallo. Scattò subito la gara a chi l'avrbbe colpito per primo: all'animale, dopo alcuni secondi di fuoco impietoso, non restò scampo. Un paio di soldati si allontanarono ulteriormente dalla colonna per andarne a raccogliere le spoglie. Dovettero meravigliarsi non poco nell'accorgersi che non si trattava di un canide selvatico, bensì di uno spellacchiato cane domestico. E che non fosse randagio lo si capì ben presto quando si videro magicamente circondati da piccoli omini. Da una sporgenza ai margini della pista, mio nonno e molti altri soldati, avevano assistito alla scena, richiamati dagli spari destinati al povero animale. Appena i loro compagni s'erano approssimati al cane appena freddato,
videro un nugulo di piccoli uomini fuoriuscire letteralmente dal terreno come fossero formiche, circondando in breve i due soldati e puntandogli minacciosamente delle rudimentali lance.
Fu presto data loro manforte: un gruppo sostanzioso di soldati, tra i quali mio nonno, si avvicinò con gesti pacifici sul luogo del misfatto, cercando di fare in modo che l'incidente non sfociasse in qualcosa di più grave. Fu anche chiamato un interprete Ascaro che seguiva il battaglione, ma questi non fu in grado di comprendere neanche una parola dell'idioma che quegli uomini - quasi un parto della preistoria del mondo - usavano per esternare le loro accanite proteste.
Era ovvio a tutti che lamentassero la perdita del loro cane, pretendendo un congruo risarcimento. La qual cosa fu concessa -non ricordo in che forma- cosicché, appianato e riparato il danno, quegli uomini furono visti ritirarsi di gran lena nelle cavità dalle quali erano altrettanto fulmineamente usciti, lì sotto il caldo e secco sole di quel giorno, in mezzo al nulla. Difficile capire di che razza si trattasse; l'unico fatto certo: "erano uomini che vivevano nelle tane"!

IL GHIBLI E LO SCONFINAMENTO IN EGITTO -
"Anche io sono stato in Egitto...", mi ripeteva spesso quando mi vedeva affaccendato nei miei studi egittologici oppure se spuntava qualche piramide in TV.
"...Ma per errore!". Parte di un distaccamento di ritorno da una missione nella zona dell'attuale sud-est della Libia, in pieno Sahara, tra El-Kufrah e il Gebel el-Uweinat, furono sopresi dal ghibli che infuriò impietoso per giornate intere. La sabbia entrava ovunque, e senza occhiali a mascherina, gli occhi rischiavano di riempirsi di microgranellini e infettarsi pericolosamente. La marcia verso nord durò giorni e giorni, sempre più penosa, finché le condizioni meteorologiche cominciarono a migliorare con l'avvicinarsi della costa mediterranea della Cirenaica. Poi, a poche miglia da un centro abitato e dal mare, una pattuglia inglese li bloccò. Alché mio nonno chiese il motivo dello sconfinamento degli inglesi in territorio libico (pensando d'esser giunti in Libia nordorientale, nella striscia costiera a loro nota tra Derna - Tobruq e Bardiya). In realtà erano i soldati italiani ad avere sconfinato, ed di parecchie decine di chilometri, essendo giunti -traditi dal Ghibli e dalle bussole- ben oltre il confine nordoccidentale dell'Egitto, nel territorio di "Marsa Matrut" (Mersa Matruh)! Nonostante tutto, la cosa suscitò solo tanta ilarità nei due gruppi avversi. Gli italiani vennero successivamente accompagnati, via Sidi Barrani, fino al confine libico...


... e nel 2009, a 93 anni,
nonno Carlo ancora guidava!

IL CAMION DEI COLONI -
Fresco patentato, venne subito messo alla prova su di un sentiero che scavalcava un altopiano oltre il quale il battaglione doveva accompagnare alcuni camioncini zeppi di coloni italiani, che Mussolini aveva deciso dovessero ripopolare la recente conquista italiana in terra d'Africa. Prima del passo la pista s'inerpicava per aggirare uno sperone con una serie di curve che facevano paura, per la natura del fondo assai sdrucciolevole, interrotto bruscamente da cigli che s'affacciavano (sprovvisti di qualsiasi protezione) sul baratro del fondovalle appena risalito dalla colonna. La lentissima salita sull'altopiano durò delle ore e purtroppo venne funestata da un tragico incidente, occorso al camion che precedeva la vettura di mio nonno. D'un tratto se lo vide scomparire davanti, inghiottito da un burrone con tutto il carico umano di gente che avrebbe dovuto iniziare una nuova vita. Impossibile tornare giù per dare una sepoltura a tutti quegli sventurati. Bisognava proseguire oltre il passo ormai vicino, ma nonno Carlo mi ripeteva che, dopo ciò a cui aveva assistito, non fu per niente facile! Dovettero mettersi in molti -e quasi con la forza- per farlo rientrare davanti al volante, ma poi lui e tutti i veicoli che lo seguivano ripartiono, superando quel delicatissimo e tremendo passaggio.

CORSA ALLA MITRAGLIATRICE -
Quando gli chiedevo se avesse mai ucciso, in guerra, i racconti si facevano confusi. Ne avevo perso memoria, ma grazie ad uno dei suoi figli, mio zio Emilio, ho ritrovato questo frammento di una "battaglia all'ultimo sangue", combattuta in un fortino (Forte Luesci??), evento di cui non restano molti particolari, anche perché, come suggerisce mio zio, è possibile che sia stato in parte rimosso. Ne resta una sola "scena" di cui mio nonno fu eroico protagonista.
I beduini -che erano al servizio degli inglesi- avevano attaccato il forte: sui cavalli roteavano paurosamente delle sciamarre affilatissime e non di rado chi finiva nel loro raggio d'azione si ritrovava senza accorgersene privo di arti o decapitato. Gli assalitori si stavano arrampicando per impossessarsi delle postazioni chiave sugli spalti, la qual cosa avrebbe decretato il massacro dell'intera guarnigione italiana lì acquartierata, perché sul muro la faceva da padrone una grossa mitragliatrice. D'improvviso una scarica incrociata falciò i soldati italiani che erano asserragliati dietro alla mitragliatrice. Mio nonno se ne accorse e cominciò una frenetica corsa disperata per anticipare un gruppetto di beduini che pure mirava a conquistare quel pezzo di capitale importanza. Ci arrivò in tempo, e questo probabilmente cambio' il destino suo e dei suoi commilitoni. Le sue scariche falciarono immediatamente tutti i diretti rivali per poi essere reindirizzate verso gli altri nemici che s'erano fatti breccia oltre il portale. Anche in questo caso saltarono arti e teste in pochi secondi, ma quel massacro servì ad evitarne un altro!
Purtroppo questo episodio che lo vide attore in prima persona mi è stato raccontato assai di rado e a ... brandelli. L'ho riportato, così come me lo ha ricordato zio Emilio in un nostro recente incontro a casa della mamma, ovvero da mia nonna Concetta Loddo, vedova di Carlo Boscia, e tuttora vivente (n. Reggio Calabria, 1920). Anche lei ne ha viste tante, in periodo di guerra (la casa di S. Maria la Nova fu colpita dalle bombe) e dopo (hanno vissuto a Bagnoli, dal 1948, a un tiro di schioppo dalle ciminiere dell'Italsider che giornalmente - con il favore del vento- portavano nere polveri sui panni stesi, nelle case e nei polmoni) per non parlare di qualche episodio -che oggi suonerà assai comico- che mi ha raccontato, tra le risate, di scappatelle amoroso-culinarie del marito una delle quali in particolare fu da lei "punita" in modo emblematico, con un bel piatto di pasta... ma questa è un'altra storia!

CATTURA, I MESI PASSATI NELLA TRIBU' DI BEDUINI, SPOSALIZIO CON LA FIGLIA DEL CAPO E FUGA -
Questo è sicuramente il racconto che ho sentito più volte, anche perché è qualcosa di veramente avventuroso e di per se stesso potrebbe essere il soggetto di un film o la trama di un libro. Accadde un giorno in pieno Sahara sabbioso, mio nonno era su una jeep-camionetta con altri due compagni anch'essi in forza al genio, un veneziano e un milanese, uno dei due si chiamava De Rudadis o De Rudatis - è uno dei pochi nomi propri che io ricordi dei suoi racconti.
Essendo genieri, trasportavano materiali e cavi per le potenti fotoelettriche, che forse andavano srotolati in un tratto desertico (questo non lo ricordo bene), ma di certo il racconto inizia con una delle più comuni disavventure che possano incorrere tra le sabbie, ovvero la macchina che si arena. Il vento sposta perennemente le dune che quindi finiscono per coprire e fagocitare ampi tratti delle piste carovaniere, in special modo di quelle più periferiche e meno battute.
Mio nonno era sotto l'autoveicolo intento a cercare di sistemare un'asse di legno tra sabbia e ruota per favorire il disarenamento della jeep.
Accadde tutto in un attimo. Vennero attaccati da un gruppo di beduini con i cammelli. Il veneziano probabilmente cercò di reagire o di avvisare i compagni ma fu freddato subito da un'arma da lancio e cadde dietro la jeep senza che i due compagni, indaffarati l'uno dentro e l'altro sotto la camionetta, se ne accorgessero.
I beduini erano foraggiati dagli inglesi e quindi spesso depredavano a comando o per iniziativa autonoma le pattuglie dell'esercito fascista di Mussolini, specialmente se si trattava di piccoli distaccamenti di pochi soldati.
Quando i cammelli li circondarono, il milanese uscì a mani in alto e qualcuno prese mio nonno per i piedi trascinandolo via da sotto al veicolo.
Anche questo milanese era un tipo burlone, che faceva spesso degli scherzi pesanti, e ironizzava e canzonava su tutto e tutti. Probabilmente non si erano ancora accorti del fatto di essere rimasti in due (o forse il veneziano venne ucciso successivamente?), comunque la situazione non doveva sembrargli così tesa e pericolosa (forse era risaputo che i beduini si accontentavano solo di derubare le truppe?). Fatto sta che, nel momento in cui il capo degli africani, individuando uno dei congegni portati nell'autoveicolo, lo scambiò per una macchina fotografica a pozzetto pretendendo che gli venisse scattata subito una foto, il milanese non seppe trattenere uno scoppio fragoroso e incontrollato di risate. La cosa fu ovviamente vista come un insulto al capo ad un cenno del quale (o fu egli stesso?) partì un colpo di fucile che fermò per sempre la risata e la vita del milanese freddato da pochi metri in pieno petto.
Mio nonno di certo sudò freddo, e la prima cosa che fece, fu quella di abbassare le mani ma solo per prendere la scatoletta sistemata tra i cavi della fotoelettrica.
Non era una macchina fotografica a medio formato bensì l'apparecchiatura per trasmettere i segnali morse.

Fortunatamente riuscì a cavarsi d'impaccio e a spiegare cosa fosse quell'aggeggio. Venne trasportato al villaggio e -col tempo- da prigioniero diventò amico personale del capo, Zomba, entrandone nelle grazie fino al punto di sposarne la figlia, Mabruka, come già anticipato nell'introduzuione. Credo sia rimasto con gli indigeni per almeno 2-3 mesi! Nel tempo diventò quasi uno di loro, talvolta andava con la sua sposa a caccia di quaglie nel deserto marmarico con uno schioppo che sparava proiettili "a grappolo" non appena Mabruka faceva involare gli stormi di uccelletti, abbattendone a decine per volta (un tempo la caccia alle quaglie era diffusissima anche in Italia, come ad es. sull'Isola di Capri, dove vi erano le "parate", particolari reti che ne intrappolavano a decine di migliaia per volta, durante il passo stagionale). Nel villaggio costruì ingegnosamente vari accrocchi, come una specie di doccia, e inoltr insegnò a Zomba l'alfabeto Morse.
Un giorno, mentre gli uomini erano via a depredare qualche carovana, si mise sul Cammello e abbandonò quella vita, tornando verso Nord alla civiltà, fino a giungere nei pressi di un forte cirenaico (?). E lì, come già scritto sopra, rischiò di beccarsi una pallottola, indirizzatagli contro dato che era "vestito" come un beduino ... Ma soprattutto era ancora recente e vivo tra i soldati il ricordo della strage di Forte (Luesci ?): con lo stratagemma delle labbra screpolate dalla sete, alcuni indigeni imbottiti di esplosivo si erano fatti aprire il portone facendosi poi saltare in aria ed aprendo una breccia che causò purtroppo il massacro degli acquartierati. Quando sentì la pallottola fischiare, forse perché ormai da mesi abituato a parlare un facile italiano, con i verbi all'infinito, aveva inizialmente gridato da sotto le mura "non sparate, io essere italiano", alché partì un secondo colpo - questo forse in aria... Resosi conto di star rischiando la vita proprio nel momento in cui era finalmente tornato tra i suoi, tirò immediatamente fuori la piastrina facendola luccicare mentre iniziò ad urlare ripetutamente:
"caporal maggiore Boscia Carlo al servizio del ventunesimo reggimento...". Altri tempi, altre storie, altri uomini. Che nonno mio nonno, un po' Lawrence d'Arabia e un po' Totò.

Fotografie di Carlo Boscia, 1938-39


Alcuni scatti del 2009, quando compì 93 anni ... e altri del 18/6/2011 quando, a 95 anni, lo riportammo nella sua natìa Benevento
Francesco Raffaele


H O M E